Colite indotta da Clostridioides (già Clostridium) difficile)

(colite associata ad antibiotici; colite pseudomembranosa; diarrea indotta da Clostridioides difficile; C. difficile)

DiLarry M. Bush, MD, FACP, Charles E. Schmidt College of Medicine, Florida Atlantic University
Revisionato/Rivisto mag 2021
CONSULTA LA VERSIONE PER I PROFESSIONISTI
I fatti in Breve

La colite indotta da Clostridioides difficile (C. difficile) è un’infiammazione dell’intestino crasso (colon) che provoca diarrea. L’infiammazione è causata dalla tossina prodotta dai batteri della specie Clostridioides difficile e solitamente si sviluppa dopo l’assunzione di antibiotici, che consente a questi batteri di proliferare nell’intestino.

  • La colite indotta da C. difficile generalmente si manifesta dopo l’assunzione di antibiotici.

  • I sintomi tipici variano da feci lievemente molli a diarrea emorragica, dolore addominale e febbre.

  • Nei pazienti con sintomi di colite indotta da C. difficile si prescrive un esame delle feci e talvolta un esame dell’intestino crasso tramite colonscopia.

  • La maggior parte dei soggetti con colite indotta da C. difficile lieve migliora quando si interrompe l’assunzione dell’antibiotico che l’ha provocata e si passa ad un altro antibiotico.

I batteri della specie Clostridioides difficile (C. difficile) non richiedono ossigeno per vivere, cioè sono batteri anaerobi.

Sapevate che...

  • Alcuni individui sani ospitano batteri della specie C. difficile nel proprio intestino.

(Vedere anche Panoramica sulle infezioni da Clostridium)

Cause della colite da C. difficile

Nella colite indotta da C. difficile, le tossine prodotte dai batteri causano l’infiammazione del colon (colite), solitamente in seguito all’assunzione di antibiotici per il trattamento di un’infezione. Molti antibiotici alterano l’equilibrio tra i tipi e le quantità dei batteri che vivono nell’intestino. Così alcuni batteri patogeni, come C. difficile, possono proliferare in modo eccessivo e sostituirsi ai batteri innocui che vivono normalmente nell’intestino. C. difficile è la causa più comune della colite che si sviluppa in seguito all’assunzione di antibiotici.

Quando i batteri della specie C. difficile proliferano in modo eccessivo, rilasciano tossine che causano diarrea, colite e la formazione di membrane anomale (pseudomembrane) nell’intestino crasso.

In alcune epidemie ospedaliere è stato identificato un ceppo più letale di C. difficile. Questo ceppo produce tossine in quantità notevolmente maggiori, causa una patologia più grave con maggiori possibilità di recidive, è più facilmente trasmissibile e risponde meno bene al trattamento antibiotico.

Quasi tutti gli antibiotici possono causare questa patologia, ma sono coinvolti soprattutto clindamicina, penicilline (come ampicillina e amoxicillina), cefalosporine (come ceftriaxone) e fluorochinoloni (come levofloxacina e ciprofloxacina). La colite indotta da C. difficile può manifestarsi anche dopo cicli di terapia antibiotica molto brevi. La colite indotta da C. difficile può inoltre essere causata dall’uso di determinati farmaci chemioterapici antitumorali.

L’infezione da C. difficile è più frequente se un antibiotico viene assunto per via orale, ma si verifica anche quando gli antibiotici vengono iniettati in un muscolo o somministrati in vena (per via endovenosa).

Il rischio di sviluppare una colite indotta da C. difficile e il rischio che sia una forma grave aumentano con l’avanzare dell’età. Altri fattori di rischio includono:

  • Presenza di una o più patologie gravi

  • Prolungato ricovero ospedaliero

  • Ricovero in una struttura assistenziale

  • Chirurgia gastrointestinale

  • Presenza di una patologia o assunzione di un farmaco che riduce l’acidità gastrica

Tra i farmaci che riducono l’acidità gastrica si annoverano gli inibitori della pompa protonica e i bloccanti del recettore H2 dell’istamina, che vengono utilizzati per trattare il reflusso gastroesofageo e l’ulcera peptica.

Talvolta la fonte dei batteri è il tratto intestinale. C. difficile è comunemente presente nell’intestino dei neonati, degli adulti sani e degli adulti ricoverati in ospedale. In queste persone, C. difficile in genere non causa la malattia, a meno che non si riproduca in modo eccessivo. Tuttavia, questi soggetti possono trasmettere i batteri a soggetti a rischio. La diffusione da un soggetto all’altro può essere prevenuta con un meticoloso lavaggio delle mani.

I batteri si possono acquisire anche dagli animali domestici o dall’ambiente.

La colite dovuta a un’infezione da C. difficile si verifica raramente, eccetto in caso di recente uso di antibiotici. Tuttavia eventi stressanti, come interventi chirurgici (in genere che interessano lo stomaco o l’intestino), possono verosimilmente dare luogo allo stesso tipo di squilibrio tra il tipo e la quantità di batteri presenti nell’intestino oppure interferire con i meccanismi di difesa intrinseci dell’intestino, determinando a loro volta lo sviluppo di infezione e colite da C. difficile.

Sintomi della colite da C. difficile

I sintomi dell’infezione da C. difficile hanno di solito inizio 5-10 giorni dopo l’avvio della terapia antibiotica ma possono manifestarsi anche il primo giorno o fino a 2 mesi più tardi.

I sintomi variano in base al grado di infiammazione causato dai batteri, dall’emissione di feci poco compatte a diarrea emorragica, dolore e crampi addominali, e febbre. Nausea e vomito sono rari.

I casi più gravi possono comprendere disidratazione potenzialmente fatale, ipotensione arteriosa, megacolon tossico e perforazione dell’intestino crasso.

Diagnosi della colite da C. difficile

  • Esami delle feci

  • Talvolta sigmoidoscopia o colonscopia

Il sospetto di colite indotta da C. difficile sorge in qualsiasi soggetto che sviluppi diarrea entro 2 mesi dall’assunzione di un antibiotico o entro 72 ore dal ricovero in ospedale.

La diagnosi viene confermata mediante diversi tipi di esami delle feci. I medici eseguono analisi per individuare le tossine prodotte da C. difficile, nonché un particolare enzima rilasciato da questi batteri. Inoltre, eseguono analisi per rilevare la presenza di materiale genetico (DNA) batterico, ad esempio utilizzando la tecnica della reazione a catena della polimerasi (PCR).

La colite indotta da C. difficile può inoltre essere diagnosticata esaminando la parte inferiore dell’intestino crasso infiammato (colon sigmoideo), solitamente con un sigmoidoscopio (una sonda a fibre ottiche rigida o flessibile). Se si osserva un tipo specifico di infiammazione, detta colite pseudomembranosa, viene diagnosticata la colite indotta da C. difficile. Un colonscopio (una sonda flessibile a fibre ottiche di lunghezza maggiore) viene utilizzato per studiare l’intero intestino crasso se il tratto colpito è situato più in alto rispetto a quello raggiunto dal sigmoidoscopio. Tali procedure, tuttavia, non sono di solito necessarie.

Il medico può ricorrere a esami di diagnostica per immagini come radiografie o tomografia computerizzata (TC) dell’addome se sospetta una complicanza grave, come una perforazione dell’intestino crasso o megacolon tossico.

Trattamento della colite da C. difficile

  • Interrompere l’uso degli antibiotici responsabili della colite

  • Assumere un antibiotico efficace contro C. difficile

  • Nei casi gravi e recidivanti, un trapianto fecale

Se un soggetto con colite indotta da C. difficile presenta diarrea mentre assume antibiotici, i farmaci vengono immediatamente interrotti, eccetto qualora siano assolutamente necessari. Dopo l’interruzione della terapia antibiotica, i sintomi solitamente scompaiono entro 10-12 giorni. Se i sintomi sono gravi o persistono, viene solitamente somministrato un antibiotico efficace contro C. difficile.

I farmaci (come la loperamide) che le persone talvolta assumono per rallentare la peristalsi intestinale e trattare la diarrea vengono in genere evitati. Tali farmaci possono prolungare il disturbo mantenendo la tossina che provoca la malattia a contatto con l’intestino crasso.

La maggior parte dei casi di colite indotta da C. difficile viene trattata con l’antibiotico vancomicina, somministrato per via orale. Un antibiotico relativamente nuovo, la fidaxomicina, sembra essere piuttosto efficace e consente di ridurre il tasso di recidive.

Nel 15-20% dei casi i sintomi si ripresentano, in genere entro poche settimane dall’interruzione del trattamento. Quando la diarrea si ripresenta per la prima volta, viene somministrato un altro ciclo dello stesso antibiotico. Se la diarrea continua a ripresentarsi, viene solitamente somministrata vancomicina per diverse settimane, talvolta seguita dall’antibiotico rifaximina. Un’alternativa è costituita dalla fidaxomicina, da somministrare per 10 giorni.

Il bezlotoxumab è un anticorpo monoclonale che viene somministrato per via endovenosa. Si lega a una delle tossine prodotte dal Clostridioides difficile. La somministrazione di bezlotoxumab in aggiunta al trattamento antibiotico standard può ridurre la probabilità che la diarrea si ripresenti.

Per alcune persone che presentano recidive frequenti e gravi, un’altra opzione consiste nella batterioterapia fecale (trapianto di feci). In questa procedura, si inseriscono nel colon del paziente circa 200-300 millilitri di feci provenienti da un donatore sano. Le feci del donatore vengono prima esaminate per escludere la presenza di microrganismi patogeni. La batterioterapia fecale può essere somministrata con un clistere, mediante un tubo inserito nel tratto digerente attraverso il naso o mediante un colonscopio. I medici ritengono che il materiale fecale di un donatore ripristini il normale equilibrio batterico nell’intestino di una persona affetta da colite indotta da C. difficile. Dopo questo trattamento, vi sono minori probabilità di recidive.

Occasionalmente, la colite indotta da C. difficile è così grave che il soggetto deve essere ricoverato per ricevere liquidi ed elettroliti (come sodio, magnesio, calcio e potassio) per via endovenosa e trasfusioni di sangue.

Raramente, è necessario l’intervento chirurgico. Ad esempio, potrebbe rendersi necessaria l’asportazione chirurgica dell’intestino crasso (colectomia) come ultima misura per salvare la vita del paziente.